SERVIZIO SPECIALE – Il lean management ci aiuta a livello strategico tanto quanto lo fa operativamente? Qual è il pensiero strategico alla base del lean thinking? Michael Ballé risponde a queste domande, riandando col pensiero ad alcuni dei grandi strateghi militari della storia.
La parola a Michael Ballé, Executive Coach, autore e co-fondatore dell’Institut Lean France
Sono stato fortunato ad avere la possibilità di praticare il lean con Norbert Dubost, Direttore Industriale di cinque stabilimenti di Thales Avionics. Lavorare insieme mi ha chiarito tre cose.
Primo: il lean fornisce risultati visibili in termini di miglioramento della qualità, riduzione delle scorte e risparmi sui costi. Migliora sia la competitività nel corso delle gare di appalto che la redditività interna.
Secondo: il lean è un ottimo modo per coinvolgere gli operatori e i manager di prima linea nel loro lavoro, per renderlo più fluido e far sì che sia più facile eseguirlo correttamente sin da subito. In particolare, abbiamo scoperto che alcuni dei nostri sistemi e strumenti possono essere difficili da usare per chi deve assemblare componenti giusti al momento giusto e stiamo lavorando intensamente per sistemare le cose ad un livello di dettaglio mai raggiunto finora. I miglioramenti delle prestazioni devono essere effettuati davvero nei dettagli delle attività, così come le iniziative e i suggerimenti che portino ad una maggiore coinvolgimento dei dipendenti e ad una maggiore partecipazione nei loro team.
Terzo: i risultati possono essere direttamente correlati alla disciplina con cui gli stabilimenti utilizzano il sistema pull per migliorare il livello di just in time, allo jidoka e ai cantieri kaizen il cui obiettivo è migliorare il valore per il cliente, e allo spessore del lavoro fatto con i tecnici di linea sullo standard work e sui suggerimenti. Senza dubbio, praticare il lean porta a risultati operativi che consentono di migliorare la competitività e che sono visibili in bilancio.
Ma, al di là dell’efficacia operativa, rimane una domanda: il lean è di qualche aiuto a livello strategico, non solo come tattica di produzione?
È difficile definire Toyota, l’inventore originale della metodologia lean, in termini di visione strategica. In verità, molti osservatori hanno concluso che l’approccio dell’azienda si basa su profondi paradossi.
Un decennio fa, uno studio del gruppo di ricerca del professor Takeuchi, durato sei anni, sull’ambiente manageriale in cui si colloca il Toyota Production System, ha concluso che Toyota prospera proprio nell’ambito di una “cultura di contraddizioni”. Contraddizioni come, ad esempio: 1) si muove lentamente, ma fa enormi progressi, 2) cresce costantemente pur essendo una società paranoica, 3) le sue operations sono efficienti, ma è capace di usare il tempo dei propri dipendenti in modi apparentemente inefficienti, 4) è parsimoniosa ma spende un sacco di soldi in settori chiave, 5) sostiene che la comunicazione deve essere semplice ma costruisce social network complessi e 6) ha una rigida gerarchia eppure concede ai dipendenti la libertà di rimandare una riunione – vedi Osono, E., N. Shimizu & H. Takeuchi (2008) Extreme Toyota, John Wiley and Sons.
Non sorprende pertanto che individuare la strategia di una società che vive coltivando contraddizioni non sia un compito facile, e, di conseguenza, descrivere gli aspetti strategici del lean non sia una sfida semplice.
La maggior parte di noi cresce in organizzazioni tradizionali in cui la coerenza strategica è importante e la strategia è solitamente espressa attraverso dei piani strategici (quali mercati cerchiamo e a quali rinunciamo) e attraverso i corrispondenti piani di intervento. Gli alti dirigenti fanno alcune ipotesi su come i mercati si muovono, stabiliscono gli obiettivi in termini di dove vorrebbero essere, delineano un piano di intervento per arrivarci, e chiedono all’organizzazione di tradurre tutto ciò in un piano d’azione con obiettivi concreti e attività. A questo punto, accade qualcosa di totalmente imprevisto e a cui nessuno aveva pensato.
Come possiamo dimostrare il valore strategico del pensiero snello, al di là dell’efficienza operativa, se non siamo in grado di spiegare il pensiero strategico insito nel pensiero snello?
GLI INSEGNAMENTI APPRESI DAGLI STRATEGHI MILITARI
Di ritorno da un gemba walk con Norbert in uno degli stabilimenti di Thales Avionics, ci siamo trovati a discutere sull’approccio all’azione di fronte all’incertezza di David Petraeus (ex direttore della CIA e generale dell’esercito degli Stati Uniti), come descritto in un recente articolo apparso su Harvard Business Review :
– impara più velocemente del tuo avversario;
– focalizza la direzione sui problemi più grandi;
– sii pronto a sfruttare il vantaggio della sorpresa.
Questo perché stavamo discutendo se i responsabili dello stabilimento che avevamo appena visitato 1) avessero imparato abbastanza velocemente da essere sufficientemente competitivi nel convincere i clienti con le prossimi offerte, e 2) se i nostri sforzi lean nei cinque stabilimenti stessero producendo i risultati attesi in termini di lavoro riuscito, generando cassa attraverso la riduzione delle scorte, sempre attenendoci alla riduzione totale dei costi che volevamo raggiungere. Avevamo anche parlato della necessità di muoverci velocemente su temi difficili come l’Internet delle cose e la riduzione dell’impatto ambientale, e quali iniziative in loco potevano essere messe in atto per accelerare i progressi a riguardo di queste difficili sfide. La discussione sembrava straordinariamente simile al pensiero di Petraeus e questo ci ha fatto pensare.
La strategia aziendale spesso prende in prestito i suoi concetti dalla strategia militare o, per essere precisi, dall’interpretazione in chiave economica della strategia militare. I tre pensatori strategici più comunemente citati sono:
Sun Tzu, generale cinese vissuto nella Cina antica (periodo delle Primavere e degli Autunni – 500 a.C.), di cui abbiamo mantenuto l’idea che l'”arte della guerra” – dal titolo del suo famoso trattato – sia far sì che l’avversario abbandoni la lotta prima della battaglia a causa della nostra superiorità (posizione, alleanze, informazioni) e della nostra abilità nel muoverci rapidamente in combattimento al fine di sconvolgere la sua strategia.
Miyamoto Musashi, maestro spadaccino e ronin, il cui “Libro dei Cinque Anelli” è divenuto popolare durante l’offensiva industriale giapponese negli anni ottanta. Sostiene l’importanza della preparazione attraverso un allenamento intensivo fisico e mentale, la capacità di essere flessibili di fronte alle condizioni mutevoli e l’abilità di insediarsi rapidamente là dove l’avversario è nel caos per fargli perdere del tutto la coerenza e la concentrazione.
Carl von Clausewitz, stratega e generale prussiano dell’inizio del 19° secolo, che ha sottolineato gli aspetti psicologici e politici della guerra e la necessità di prendere decisioni in condizioni di totale incertezza. I suoi concetti più noti sono quelli della “nebbia di guerra”, quando cioè non si sa che cosa stia realmente accadendo sul campo di battaglia; l'”attrito”, ovvero la difficoltà operativa di fare le cose più semplici in situazioni di combattimento, che si ripercuote sia sul morale che sui risultati; e la ricerca di “centri di gravità”, strategici e tattici, quali fonti di energia che forniscono forza morale o fisica, libertà di azione o volontà di agire.
L’attuale dottrina militare americana è anch’essa il risultato di una contraddizione. Da un lato c’è “una forza schiacciante” che implica la tecnologia più intelligente, le armi migliori e in maggior numero rispetto al nemico.
Colin Powell, un sostenitore di rilievo di questo approccio, ha affermato che quando una nazione entra in guerra ogni risorsa e strumento dovrebbero essere utilizzati per avere la forza determinante per sconfiggere il nemico, al fine di minimizzare le perdite e porre fine al conflitto rapidamente costringendo il più debole a capitolare, in linea con il pensiero di Carl von Clausewitz.
Di conseguenza, Powell ha fornito un elenco preciso delle situazioni in cui è necessario intervenire:
– è minacciato un interesse vitale per la sicurezza nazionale;
– vi è un chiaro obiettivo da raggiungere;
– i rischi ed i costi sono stati approfonditamente analizzati;
– tutti le altre modalità politiche non violente hanno fallito;
– c’è una strategia di uscita plausibile al fine di evitare coinvolgimenti infiniti;
– le conseguenze dell’azione sono state perfettamente ponderate;
– l’azione ha il sostegno del popolo americano;
– vi è aperto sostegno internazionale.
Tutto ciò è molto simile al pensiero strategico tradizionale usato nelle aziende nelle quali la strategia è definita nei termini di 1) quale segmento di mercato deve essere attaccato oppure difeso, 2) quali dovrebbero essere gli obiettivi, 3) un’analisi SWOT (punti di forza, di debolezza, opportunità e minacce) per analizzare costi e rischi, 4) il presupposto che questo non accadrà in modo “spontaneo” ma che è necessaria una spinta strategica, per lo più sotto forma di un investimento, 5) un piano di emergenza, se le cose non dovessero andare come sperato, 6) tenere in debito conto tutte le conseguenze, 7) ottenere la partecipazione della base dell’azienda e 8) il sostegno del consiglio di amministrazione, dei fornitori chiave e dei partner.
Fin qui tutto bene.
In verità, un’altra dimensione del pensiero strategico che si rispecchia nei commenti del generale Petraeus sottolinea l’importanza dell’agilità strategica e tattica, piuttosto che la pura forza dei numeri.
Questa modo contraddittorio di pensare, che è stato preso molto sul serio dai pensatori strategici in tutte le Forze Armate, fu delineato da John Boyd, un colonnello e pilota di caccia dell’Aviazione Militare americana che era conosciuto come “Boyd 40 secondi” perché impiegava 40 secondi ad abbattere i suoi avversari in un combattimento aereo. Boyd parlava della dimensione psicologica del combattimento, concetto che troviamo nella tradizione da Sun Tzu a Clausewitz. La sua idea principale era che se si è in grado di reagire più velocemente di un avversario in una realtà in rapida evoluzione, allora si può distruggerne i piani, spingerlo alla confusione e all’incapacità di decidere, prendendone così il sopravvento. Le sue idee hanno avuto una grande influenza sul pensiero militare e hanno portato allo sviluppo di aerei da combattimento più flessibili e veloci, come l’F-16, e ad un maggior affidamento a team operativi speciali nell’ambito dei conflitti del 21° secolo, nei quali la sfida principale è proprio definire chi sia il nemico.
Boyd ha delineato le sue idee per lo più nell’ambito di riunioni informative e ha lasciato poco materiale scritto, ma un articolo chiave spiega il nucleo del suo pensiero: gli schemi mentali sono più rigidi rispetto a quanto sia giustificato dalla maggior parte delle situazioni, poiché le cose cambiano più velocemente di quanto possiamo cambiare la nostra mente. Sforzandoci costantemente di scomporre le nostre strutture mentali nelle loro componenti fattuali e ricreando poi nuovi schemi, ci si può adattare ai fatti (apprendimento efficace) più velocemente dell’avversario, scombinando così le sue strategie, e vincendo. Egli ha espresso tutto ciò in dettaglio nel ciclo cognitivo OODA, inteso come modello per capire come le persone reagiscono agli eventi. Boyd descrive l’interazione con qualsiasi tipo di ambiente come un ciclo di quattro elementi chiave:
Osservazione – raccolta dei dati attraverso i sensi;
Orientamento – analisi e sintesi dei dati, che contribuiscono a formare una prospettiva mentale;
Decisione – definizione di una linea d’azione basata sulla prospettiva mentale contingente;
Azione – messa in atto materiale delle decisioni.
L’idea principale di Boyd era che se si potessero eseguire dei cicli OODA più rapidi, sarebbe possibile interrompere il ciclo dell’avversario, confondendolo inesorabilmente e sconfiggendolo – fondamentalmente dando una struttura specifica al pensiero arcano di strateghi come Sun Tzu, Musashi o Clausewitz.
UN ESEMPIO CHE CONOSCIAMO – TOYOTA
Serendipity al lavoro: uno degli esempi che John Boyd ha usato per spiegare il suo approccio è stata… Toyota. Aveva letto il libro fondamentale del lean, “La macchina che ha cambiato il mondo”, e, approfondendo ulteriormente, aveva trovato come la flessibilità e il cambiamento rapido dello stampo fossero un buon esempio delle sue teorie – citando chiaramente Ohno e Shingo, inventori della flessibilità per raggiungere il mercato più velocemente rispetto ai propri concorrenti.
Effettivamente, ne “La Macchina che ha cambiato il mondo”, Jim Womack e Dan Jones hanno messo in evidenza come Toyota abbia sviluppato e portato sul mercato più auto rispetto ai suoi concorrenti. Uno studio recente sulla gamme di prodotti nel settore automobilistico mostra come la gamma di Toyota non sia solo più ampia e più ricca di modelli rispetto ai suoi concorrenti, ma abbia anche meno cannibalizzazione interna.
Inoltre, la strategia della flessibilità di Toyota le permette di immettere sul mercato più modelli con meno investimenti poiché molti possono essere costruiti sulla stessa linea. Oltre a tutto ciò, i suoi costanti sforzi sulla qualità le permettono di mantenere i prezzi tenendo al contempo bassi i costi e guadagnando circa $ 2700 in più per ciascuna auto venduta rispetto ai suoi concorrenti.
Toyota è una realtà difficile da interpretare quando si tratta di tradizionale strategia di “mercato”. Tuttavia, è evidente come in Toyota si consideri l'”aumentare la soddisfazione del cliente attraverso lo sviluppo delle persone” una chiara strategia a lungo termine, che si esprime con migliore qualità, maggior assortimento a costi minori e migliore rendimento energetico. Questo approccio al miglioramento non si basa su un’esecuzione più inflessibile ma, al contrario, su un maggiore sviluppo dell’autonomia e iniziativa dei dipendenti. Come risultato, ciò ha fatto sì che i concorrenti gettassero la spugna: le case automobilistiche statunitensi hanno rinunciato ai modelli più piccoli e, come abbiamo visto, VW ha appena rinunciato al rendimento energetico (in realtà ha cercato di imbrogliare ed è stata scoperta).
Volendo sbilanciarsi, possiamo azzardare l’ipotesi che il pensiero di Boyd sia la chiave di uno degli aspetti più difficili della pratica lean: la visualizzazione e la gestione a vista. Alcune idee sono così profondamente radicate da farci dimenticare che sono solo idee, non regole congenite o naturali. Per esempio, il taylorismo deriva dai concetti rivoluzionari di organizzazione del lavoro e dalle tecniche inventate da Frederick Taylor, così come la gestione per obiettivi si sviluppa dalla pratica altrettanto rivoluzionaria di Alfred Sloan in General Motors, i risultati lean dalle innovazioni gestionali di Sakichi, Kiichiro e Eiji Toyoda.
– Il Taylorismo ha lo scopo di controllare le azioni di ogni dipendente fissando un unico modo dettagliato di lavorare, valido per tutti, creando così una grande macchina organizzativa focalizzata sulla produzione efficiente a prescindere dalle condizioni ambientali. Ingegneri specializzati definiscono il lavoro di “operai droni”, proprio come progettano i componenti di una macchina.
– La gestione per obiettivi ha lo scopo di forzare le decisioni dei manager, dando obiettivi molto specifici. Per esempio, se una manager è giudicata sull’obiettivo di ridurre i costi di “x” percento dal suo budget, lei naturalmente guarderà ogni singola riga del suo budget per decidere come tagliare i costi qua e là in modo da raggiungere il numero richiesto. L’obiettivo piega le sue decisioni, come l’investire in attrezzature (non conteggiate come costo) e il ridurre l’organico (contato come costo).
– Dopo aver specificato l’azione, forzato le decisioni e lavorato a ritroso con il ciclo OODA di Boyd, diventa evidente che l’obiettivo del lean è quello di influenzare l’orientamento di ciascun dipendente, attraverso la visualizzazione dei processi, insistendo sull’osservazione.
Effettivamente, un sistema pull completamente sviluppato crea segnali visivi che consentono ai dipendenti di visualizzare in modo intuitivo e sul posto:
1. se stanno raggiungendo la qualità necessaria per soddisfare i clienti (sia interni che esterni);
2. se stanno lavorando entro il tempo del ciclo di riferimento, ed in anticipo o in ritardo rispetto al piano;
3. quale lavoro dovranno iniziare successivamente, quando avranno finito quello a cui si stanno dedicando;
4. se il proprio ambiente di lavoro è nelle condizioni adeguate per eseguire il proprio compito correttamente senza sforzo, vedendo nel dettaglio i criteri che contraddistinguono il lavoro “OK” dal lavoro “non OK”;
5. quali situazioni sono problematiche e non possono essere affrontate senza aiuto e chi deve essere chiamato in caso si verifichino tali problemi.
Nell’ambiente di lavoro creato da un sistema pull, le azioni non sono definite come in un luogo di lavoro “tayloristico”, ma gli standard sono sempre chiari in modo che tutti possano fare il lavoro con sicurezza; inoltre, le decisioni da prendere non sono stabilite come in un ambiente dove sia vigente la gestione per obiettivi. L’autonomia è incoraggiata e definita come la capacità di riportare le situazioni anomale o problematiche allo standard. Il posto di lavoro è progettato per mettere in evidenza i punti di riferimento in modo che i dipendenti usino la loro creatività per allineare i loro sforzi verso il valore del cliente, e, così facendo, imparare.
Ma allora, qual è il pensiero strategico nel pensiero snello? L’idea non è quella di prendere i segmenti in crescita e abbandonare quelli non redditizi, ma di proporre più rapidamente una vasta gamma di modelli ai clienti, vedere quali acquistano e continuare a migliorarli, abbandonando quelli che non acquistano, ma non il segmento. Il primo passo verso una strategia lean è sapere chi sono i vostri clienti. Il secondo passo è avere una idea chiara della dimensione del miglioramento che vogliamo affrontare al fine di mettere pressione al mercato facendo pressione su noi stessi (per esempio attraverso una migliore qualità, un’offerta più veloce di più gamme con una maggiore flessibilità, un miglior rapporto qualità-prezzo o prodotti più ecologici). Tale miglioramento è a lungo termine, e il vantaggio competitivo deriva dalla determinazione di essere migliori, oggi rispetto a ieri, in modo costante. Nel tempo, questa pressione sui mercati può ridefinire il gioco stesso con la creazione di nuovi standard di mercato, come ha fatto Toyota con la qualità, la gamma di prodotti e ora il rendimento energetico – costringendo i concorrenti a seguirla senza averne la capacità operativa, caricandoli di un onere aggiuntivo nei costi.
Questa capacità strategica si rende possibile attraverso i tre punti a cui il gen. Petraeus ha accennato: apprendere più velocemente dei concorrenti, mantenere la focalizzazione dei manager sulle questioni più importanti ed essere pronti a sfruttare i vantaggi imprevisti.
A COSA ASSOMIGLIA UNA STRATEGIA LEAN?
Possiamo dire che una strategia lean può essere formulata nei seguenti termini:
1. conosci i tuoi clienti e segui le loro aspettative che cambiano in continuazione;
2. scegli le dimensioni del miglioramento da attuare per esercitare una pressione dinamica sul mercato (pilotando la pressione sulle proprie operations);
3. impara a svolgere le attività operative più velocemente rispetto alla concorrenza;
4. sviluppa l’autonomia dei manager e mantieni l’attenzione sulle questioni più importanti;
5. gestisci in fretta e in maniera efficiente i vantaggi inaspettati.
I mercati sono fondamentalmente competitivi: siamo in concorrenza per offrire ai nostri clienti il miglior rapporto qualità-prezzo e sono loro che scelgono, per quanto le grandi aziende cerchino di allontanarli dalla possibilità di scelta attraverso nicchie di mercato, cercando di guadagnare posizioni di monopolio o facendo patti sospetti di non competizione.
Alla fine, vince l’azienda che convince di più i clienti. Sempre.
Le strategie tradizionali spesso partono dal presupposto che un piano di interventi porterà al risultato desiderato, perché “tutte le cose sono uguali”. Oggi, più che in qualsiasi altro momento, questo è semplicemente un assunto non sostenibile. Il cambiamento è il tratto distintivo dell’ambiente in cui viviamo, e anche se i nostri concorrenti tradizionali non si muovono così velocemente, le tecnologie alternative entrano in gioco laddove non le avevamo mai viste – pensate a quanto velocemente gli e-book stanno sostituendo la carta stampata.
Il Lean è spesso ridotto a una tattica di produzione perché non si inserisce nella struttura portante della strategia tradizionale.
Il Lean non vi può dire quale nicchia perseguire, non vi può aiutare a costruire un piano d’azione e non vi dirà quali obiettivi siano ragionevoli o il modo per incentivare le persone a raggiungerli.
Tuttavia, è la chiave per la creazione di strategie dinamiche costruite sull’attenzione più consapevole verso i clienti, su obiettivi più dinamici (ridurre gli sprechi della metà ogni anno), sull’apprendimento più rapido, sul maggiore coinvolgimento di tutte le persone in ogni momento per favorire un clima più positivo, sul concentrarsi in modo più determinato sugli obiettivi di livello più alto e sul più rapido sfruttamento delle opportunità inaspettate.
Questa, riteniamo, è una strategia in sé, in linea con la tradizione strategica che risale a Sun Tzu, basata sull’evidenza che la ricerca di vantaggi dinamici sconfigge sempre l’efficienza statica.
Michael Ballé è co-fondatore dell’Institut Lean France. È ricercatore associato presso Telecom ParisTech, ed ha conseguito un dottorato alla Sorbona in Scienze Sociali e della Conoscenza. È autore di best-seller e un coinvolgente oratore oltre che managing partner di ESG Consulting. Lavora anche come lean executive coach in vari campi, dalla produzione alla progettazione, dai servizi all’assistenza sanitaria.